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  • Immagine del redattoreFrancesca Chelli

Metti che Vivo



Un piccolo passo del romanzo che ho scritto e che pubblicherò presto.


“Ci sono crepe sul marmo in sala da pranzo, le ante della cabina armadio non scorrono bene, i muri del terrazzo hanno macchie di umido. Questa casa fa schifo”.

Sono al telefono con Federico che mi ha chiamata per sfogarsi. Ha sempre qualcosa da criticare su quello che una volta era il nostro tempio e che a suo dire adesso invece è una stamberga.

“È lo specchio del vostro amore”, all’improvviso mi spunta in testa questo fumetto. Non sono io a pensarlo, da dove arriva? Mi mette a disagio.

“Sono in ritardo Federico devo andare” butto giù e parcheggio l’auto nel primo buco disponibile.

Prendo il pc, i fascicoli e corro alla riunione.


È un bell’incontro che tiene concentrata la mia testa per varie ore, andiamo a colazione fuori e quando riprendo in mano il cellulare trovo vari messaggi dalla scuola di Bibi. Richiamo per parlare con la segreteria mentre cammino in tondo cercando la mia auto. Ma dove l’avevo messa?

“Buongiorno signora, alcuni insegnanti vorrebbero vedere lei e suo marito” “Sì certo, di cosa si tratta?” “Glielo diranno loro, le volevo soltanto chiedere la disponibilità per domani”

L’auto era qui ne sono sicura, che fine ha fatto? Non l’avranno mica rubata?

Mentre penso e ho una mano impegnata con il cellulare, dall’altra mi scivolano i fascicoli che si spargono sul marciapiedi.

“No, scusi, devo guardare l’agenda, la richiamo tra un attimo” dico alla segretaria, voglio liberarmi il più in fretta possibile di lei per chiamare la polizia. “Dov’è la mia auto cacchio?” Dico ad alta voce appena chiudo la chiamata.


“Non trova l’auto?” si affaccia un tipo corpulento da un negozio, “Ho visto il carro attrezzi che portava via una macchina”

“L’ha chiamato lei?” mi viene spontaneo chiedergli, ma il tizio rientra subito.

Raccolgo i fascicoli da terra. Sono frastornata. Ho fretta, un altro appuntamento tra poco, la scuola da richiamare. Non riesco a ragionare. Chiamo il 118.

“Dica”. “Non trovo più la mia macchina” Ho un tono implorante, potrebbe venire lei a occuparsene? vorrei aggiungere.

Mi risponde con tono gentile. “Signora noi non c’entriamo. Chiami il comando dei vigili, vedrà che l’hanno portata via loro”. I fascicoli sono ormai sotto l’ascella, il telefono è in carica con il filo che esce dalla borsa, pesantissima, attorcigliata sull’avambraccio che mi fa male perché ci ho infilato il pc.

Non c’è un posto dove appoggiarmi e sono combattuta se sedermi sul marciapiede, ma ho una gonna in seta rosa pallido e con la mia buona sorte di oggi troverei di sicuro una macchia di catrame.

Al Comando dei vigili mi risponde un signore con una calma tale che mi sembra mi voglia quasi bene. Gli spiego la faccenda e lui con un fare paterno mi consiglia di prendere il taxi e andare al centro rimozioni in Via Messina. “Sicuramente la sua auto sarà stata portata lì. Se va subito non paga neanche il deposito”

“Però, che fortuna” penso.


Mentre sono in taxi guardo la città che scorre fuori.

È una giornata di sole di quelle in cui dovresti sentirti leggero solo per il fatto di esserci. Mi sembra ci sia in giro più gente del solito, persone che guidano, pedalano, attraversano, vanno ognuna da qualche parte, con i pensieri, le cose da sbrigare, gli orari da rispettare. Chissà se qualcuno si sente avvilito come me oggi, e non per l’auto portata via dal carro attrezzi. Mi dispiace che Federico abbia parlato così male di casa nostra, il suo disprezzo sta smantellando la nostra roccaforte, oltre a non perdere occasione per colpirmi.

Mi fa venire in mente quando i talebani per puro spregio avevano distrutto a colpi di dinamite i Buddha di Bamiyan in Afghanistan.

“Ci sono problemi più grandi che l’auto portata via dal carro attrezzi, vero?” cerco conferma con il signore della rimozione, al quale pago per riprendermi l’auto.

“Ma certo signora, con quegli occhi lì di cosa si preoccupa lei?”


Ecco caro signor capo delle rimozioni auto di Milano, lei ha toccato il punto.

Le persone pensano che solo perché sei bella ti vada tutto bene. Non me la voglio tirare per niente, so di essere quella che si definisce una bella donna. Ma non per questo la mia vita è stata più facile. Anzi. Ne ho viste e subite di tutte ai miei danni, gelosia, invidia, maldicenze, comportamenti scorretti.

Se poi non sei neanche una stronza la vita è ancora più difficile, perché non ti sai difendere ad armi pari. Nessuno ci crede che tu sia anche gentile.

“Kalòs kai agathòs” dicevano i Greci antichi, l’ho capita meglio dopo il liceo. La bellezza per loro non era soltanto un fatto estetico ma anche interiore, essendo la forma esteriore di quello che metafisicamente si può definire il bene.

Questo indissolubile legame, nel corso della storia, ha prodotto un divorzio tra i due principi del bello e del buono, e portato a pregiudizi dei quali sono stata spesso oggetto.

Per esempio che una bellezza fisica escluda un’interiorità intellettuale profonda. Nell’ambiente professionale ho sempre dovuto faticare il triplo per farmi ascoltare e non soltanto guardare negli occhi. O da qualche altra parte. Un bell’esercizio.

E meno male che c’è Dostoevskij a dire “La bellezza salverà il mondo”, un concetto che trascende l’estetica e che riconosce la bellezza nell’irradiazione dell’essere.

Forse la vita mi ha portato su questo cammino per mettermi alla prova a irradiare qualcosa di buono. Così sarò anche meno invidiabile all’esterno.


Copyright Francesca Chelli

"Metti che vivo"

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